Un libro destinato a far discutere quello di Salvatore Lupo e Giovanni
Fiandaca. La mafia non
ha vinto contiene infatti una sorprendente critica del
processo sulla trattativa stato-mafia, sostenendo che si tratti di un processo
‘illegittimo’, che la trattativa fu invece ‘legittima’ e che servì a salvare la
vita dei cittadini italiani, oltre a quella di alcuni esponenti politici.
Nell'esporre questa tesi, lo storico e il giurista ricostruiscono i
fatti di quei convulsi primi anni novanta, spiegando come la mafia si fosse
pericolosamente avviata su una china 'terroristica' e che la tattica stragista
(in cui si iscrivono l'omicidio Lima, le stragi di Capaci e di Via d'Amelio),
se non fosse stata fermata, avrebbe portato ad uno spargimento di sangue
inarrestabile. In quel periodo lo stato, secondo gli autori, non aveva altra
scelta se non quella di 'trattare', se così si può chiamare lo scambio
intrattenuto con i mafiosi, le cui prove per ora si limitano a quelle 334
revoche del 41bis. Si può quindi, scrivono Lupo e Fiandaca, fare appello ad uno
«stato di necessità» che giustifichi una trattativa fatta per il bene dei
cittadini e che, in ogni caso, non costituisce un 'reato' secondo la legge.
È sui capi d'accusa (violenza o minaccia a un corpo politico) del
processo sulla trattativa che si concentra Fiandaca, il quale li definisce un
«espediente giuridico» con l'obiettivo di «colorare indirettamente di
criminosità la stessa trattativa». Sarebbero quindi i pm palermitani a capo del
processo ad essere tacciabili di un «pregiudiziale atteggiamento
criminalizzatore» e di un erronea convinzione che la mafia vinca sempre ed
abbia vinto anche stavolta, nonostante l'incarcerazione di Riina e la fine
delle stragi- una convinzione contraria alla loro opinione ma che gli autori
sono pronti a scommettere, continuerà a prevalere ancora a lungo.
Il paradigma dello «stato di necessità» è legittimamente applicabile
anche in situazioni siffatte e il ricorso ad esso è idoneo a giustificare
eventuali interventi o decisioni extra
legem dello stesso potere esecutivo; ma, beninteso, ad una condizione: cioè
che i bilanciamenti e le scelte di valore sottostanti a tali interventi o
decisioni si uniformino, comunque, al criterio della salvaguardia del bene di
rango prevalente. In questi termini e limiti, l’eventuale scelta
politico-governativa di fare ‘concessioni’ ai mafiosi, in cambio della
cessazione delle stragi, risulterebbe legittima perché giustificata – appunto –
dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici
di proteggere la vita dei cittadini: scegliendo, sotto la loro responsabilità
politico-istituzionale, i mezzi in concreto di volta in volta più adeguati a
questo scopo.
Ed è, forse, superfluo precisare che parlare di stato di necessità nel
senso qui proposto non equivale per nulla a evocare la obsoleta categoria della
«ragion di Stato»: nel nostro caso, eventuali deroghe alla legalità formale,
decise a livello governativo, avrebbero infatti come motivazione non già la
tutela di interessi statali da mantenere segreti in obbedienza a una logica di
potere (o di potenza), secondo la tradizione degli arcana imperii; bensì il perseguimento di un fine salvifico secondo
la prospettiva tipica di un istituto come lo stato di necessità, che considera
per l’appunto comunque non punibili le azioni proporzionalmente finalizzate a
contrastare il pericolo incombente di danni gravi alle persone in carne ed
ossa.
Si ha l’impressione che un pregiudiziale atteggiamento
criminalizzatore, motivato da una sorta di incondizionata avversione morale nei
confronti di ogni ipotesi di calcolo costi-benefici, abbia invece precluso ai
pm palermitani di lumeggiare adeguatamente la dimensione prospettica della
divisione dei poteri, con le implicazioni che ne derivano rispetto agli spazi
di liceità giuridica (il giudizio etico-politico è altra cosa) da riconoscere
ad eventuali scelte politiche lato sensu
trattativiste.
[...]
Ma ipotizziamo pure che il presidente Scalfaro, nel perseguire per i
motivi già detti un ammorbidimento del 41 bis, fosse stato davvero al centro di
un informale circuito costituito a vario titolo da Conso, Capriotti, Di Maggio,
Parisi, lo stesso Mori, ecc. – soggetti tutti favorevoli a dare segnali di
distensione allo scopo di arrestare l’escalation stragistica. Ebbene, anche se
così fossero andate le cose, il giudizio sulla liceità dell’operazione
rimarrebbe immutato: se una decisione è infine presa da un ministro competente,
essa è penalmente insindacabile perché rientra – come in questo caso – in uno
spazio di discrezionalità politica. L’assumerla in piena solitudine, o sulla base
di un informale concerto con altri esponenti delle istituzioni, non cambia
molto: la decisione rimane giuridicamente legittima in entrambi i casi. Altra
cosa sono le valutazioni politiche o di opportunità.
Se si riconsidera a questo punto l’orientamento di fondo privilegiato
anche implicitamente dai pubblici ministeri – che li porta a guardare con
sospettosa diffidenza ad ogni iniziativa extragiudiziaria tendente allo scopo
di bloccare le stragi, e ciò pure a costo di rimuovere il principio della divisione
dei poteri –, l’impressione che in definitiva si trae è questa: per la
magistratura inquirente la vera legalità o legittimità non può che essere
ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione
competente quella giudiziaria; per cui è da stigmatizzare come interferenza
illecita o inopportuna ogni intervento autonomo di altri poteri istituzionali.
(Giovanni Fiandaca)
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